martedì 9 febbraio 2010

ricostruzioni di eventi e assiomi intitolati al dormiveglia.

L'amore porta il dolore, e il dolore, poi, non se ne va più, alla meglio si tramuta e, di fatto, rimane il groppo, li. Dove tutti credono sia lo stomaco a stringersi. Tutti sbagliano perché è li che si nasconde la nostra anima.

E' solo tipo una puntura d'insetto. E così anche noi saremo al sicuro da ogni spiacevole eventualità ed irritazione. Gonfiamoci di cortisone.
Vedrai, sparecchieremo di nuovo quelle tavole ancora imbandite di cibo non nostro, di acqua non nostra, di posate pregiate ma lerce di sugo, di tovaglioli sporchi di altre bocche.
Ruberemo i brandelli del loro tessuto, ci infangheremo nelle loro sfrenate agonie di sapori mischiati. Ci infrangeremo le palpebre per la sorpresa. Le lacereremo, sono così fini.
Ma non ci prenderanno mai. Nemmeno andandosene senza salutare, loro, che erano ospiti inattesi.

Speravo di riuscire a passeggiare di nuovo tra quei vicoli in salita che portano solo altre paure tendenziose. Fatti spenti. Occhi morbidi. Grida letali. Occhi armati del peggior fiato, mani ruvide.
Piedi gelati,viola. Scivolano senza il tatto. orgogliosi. A suon di sale sulle ferite.

Fino ad oggi ho addobbato la mia testa sperando mi potesse distrarre. sperando di acquistare nuovo fiato per salire ancora, sperando che potesse servirmi a non rovinare tutto quanto costruito fino ad ora. Speravo di riuscire a salvare prima che saltasse la corrente. Ho visto tutto spegnersi davanti al mio naso. A un centimetro dal burrone. Che poi non c'avrei più nemmeno pensato ai tuffi di spalle giù dove non c'è niente.

Ho creduto fosse semplice riempirmi di sorrisi e di nuove proposte di legge da discutere nel mio parlamento.
Non ho mai pensato alle conseguenze della sete di potere, e mi tengo alla larga dal volerne.
Mettetemi in condizione di poter scegliere davvero. Vi dirò chi sono.
Vi dirò davvero chi sono. Confesserò tutto. Racconterò tutto agli inquirenti. Non voglio un avvocato.

Voglio una nave.
Imparare a domarla e partire. Senza soldini, e senza monete. Senza remi e senza vele.

Sventolavano le bandierine, sul molo. Milioni di usa e getta puntate ad un volto ringiovanito.
Tutti quanti costretti a rincorrere un carro che non si fermerà mai ad aspettarvi davvero.

E' una nave che serve.

Non carri armati, o auto velocissime, o treni rapidi ma sempre in ritardo.
Sono contento di guardarvi sudare mentre correte contro uno specchio, perché avete fatto tardi.
Vi farete del male. Vi tagliuzzerete le guance e i palmi delle mani, non riuscirete a passarci attraverso.
E non arriverete in tempo.

Sarete come dei volatili fastidiosi che si schiantano sulla parete di un palazzo di vetri. Sarete tutto il malaugurio e la sciagura che cercherò di scacciare dalle mie notti.
Volatili.
Cercherò di scacciarli. Ma so che torneranno.
Sempre più affamati di vedermi dormire.
Sempre più prepotenti.
Sempre più veloci.Precisi.Sinuosi.Aderenti allo stomaco. Non era reflusso gastroesofageo, ecco cos'era.
Torneranno a rovinare tutti i pomeriggi di quei sabato che sanno di innocuo.
Li ricacceremo. Cercheremo di volergli male, capiranno che non devono tornare.
Torneranno. E ci porteranno alla pazzia.
Non si fermeranno mai, continueranno a tormentarci.

Bisbigliavo, tormentato.

Sono speranze verdastre, sporche, contorte, rinnegate, miscredute, concrete, spaccate a pezzi e incollate colandoci sopra la plastica, sulle crepe.

Mettetemi in condizione di scegliere e lo capirete, chi sono.

Sarete dei volatili silenziosi e furbi. Sarete un arpeggio ripetuto allo sfinimento.
Sarete uno sbatter d'ali violento e malizioso.
Sarete un afta sulla gengiva.
Sarete una vescica gonfia sul dito.

Estirperò tutto.
Antibiotici e sale in zucca.
Smaltirò tutto, forse.
Tuttavia, hanno vita breve questi fermenti lattici.

Costruisco, provo. Distruggo, riprovo.

Pensavo di esserne immune ormai.
Così tante toppe e medicinali. Quei volatili erano scappati, impauriti dai miei spaventapasseri col cappello di paglia.

Assimilavo bene, miglioravo costante, crescevo regolarmente, mangiavo sano.

Ma erano valutazioni sbagliate, diagnosi errate e cure fuori luogo.

E io che volevo una nave.

Inciampavo ma non cadevo, e camuffavo tutto con una risata sempre nuova.
Ero immerso ma respiravo aria pulita a pieni polmoni, parlavo spedito. Nessuno di quei volatili faceva più capolino al capolinea.

Mi sono trovato con le mie orecchie che scoppiavano. Immaginando che le tue fischiassero.

Mi sono sentito corretto e impostato.
Reciso e cucito.
Lavato e piegato.
Pulito e dissetato.
Ma mai completato.

Sono un vuoto a rendere a me stesso e
di nuovo immerso, respiravo con la cannuccia.
Ma era solo alcool giù nel naso, e bruciava parecchio.

Venite a vedere. C'è un corpo in terra, sulle strisce pedonali. Non si sono fermati, dannati pirati.
C'è sangue dappertutto e delle ossa rotte.

C'è gente che parla. Parla ma non vede. E pronuncia parole non sue.
Parlano e non vedono.
Ma se vedessero.


lunedì 1 febbraio 2010

Stritolati i serpenti, scacciate le cavallette, abbiamo mandato a monte i vostri piani

Pedalavo biciclette immaginarie, e con gli occhi chiusi, bruciati e gonfi dal sonno e dal fumo denso della stanza con le carte, vaneggiavo vago. Addormentandomi dove possibile.
Mente lucida e corpi morti. Morti stecchiti.
Corpi ancora irrigiditi dal rigore e contorti nelle dita di una mano che con ogni probabilità non smetterà di stringere, facendolo sgorgare sempre il sangue denso, di quello che prima d'ora l'abbiamo visto solo in qualche film, o in qualche brutto incidente da piccoli.
Sangue vero, che sa di ferro.

Ho iniziato a mischiare i sintomi e le conseguenze.
Curo ogni doppia sbagliata, ogni punteggiatura errata, ogni maiuscola fuori posto, ma continuo a confondere le ombre e, ogni volta che me accorgo, ne perdo un pezzetto.

Sono vistosi i danni.
Sono vistosi e fastidiosi.

Nel tedio di una preghiera ben recitata decido di sparire nella macchia, di darmi una mossa e di brindare a tutti quei giorni in cui ti si taglia la faccia tanto l'aria è fredda e mirata in mezzo agli occhi.
A tutti quei giorni in cui le ferite non riescono nemmeno ad asciugarsi perché l'aria al contrario è troppo poca.
A tutti quei giorni di martirio lavorativo.
A tutti quei giorni in cui pensavo potesse cambiare, la vita.
A tutti quei momenti non capiti ai quali ho pensato troppo tardi.
A tutti quei giorni pieni di post-it.
A tutti quei giorni intrisi di lapidi, di frenate con l'abs, di fiori, di dita medie fuori dai finestrini, di battute esilaranti.
A tutte quelle mattine di ghiaccio.
A tutti quei giorni di desiderio assoluto di diventare qualcosa.
A tutti quei giorni di caos.
A tutte quelle persone così strane da non crederci.
A tutte quelle voci sprecate, mai sentite, ignorate: brindo!
Ed espiro fino al vacuo. E poi di nuovo inspiro fino a scoppiare. E poi di nuovo, e ancora, e ancora. Finché decido di rassegnarmi a riacquistare solo un colorito normale e un respiro regolare.
Ricordo quello che avrei voluto essere. Pensavo ci sarei riuscito, ad ogni costo. Con ogni mezzo.
Confondevo i sintomi. I toni e pure i semitoni.
Nel tedio di una ricerca che è un incognita, c'ho provato, riposando le mie ossa ogni notte.


Le stanze sono gremite, e c'è ancora tutto quel fumo a farmi lacrimare.
Le facce sono molteplici, e solo a spintoni possiamo riuscire a non cadere.
Dopotutto saremmo capaci a rialzarci. Non avremmo grossi problemi.
In fondo il nostro lavoro è cucire toppe sulle ginocchia.
Scelgo di uscire non facendoci troppo caso. Senza donne cannone da immortalare e senza pagine da voltare di nuovo.
Così, secco.
Al sapore di ferro.

Aspetto che si sciolgano i ghiacciai.
Vedo le luci spegnersi, guardo la stanza gremita svuotarsi. I vetri sono ancora appannati.

Da buon mendicante scelgo di tornare dentro. Chissà se qualche sbadato ha perso qualcosa nella ressa.
Noto che qualcuno con un intento preciso, non certo per sbaglio, ha lasciato delle monetine; forse in pegno per l'inferno.

Lascio tutto com'è e me ne vado sorridendo, perché la fuori, tempo beffardo, sta già nevicando rosso.