lunedì 1 febbraio 2010

Stritolati i serpenti, scacciate le cavallette, abbiamo mandato a monte i vostri piani

Pedalavo biciclette immaginarie, e con gli occhi chiusi, bruciati e gonfi dal sonno e dal fumo denso della stanza con le carte, vaneggiavo vago. Addormentandomi dove possibile.
Mente lucida e corpi morti. Morti stecchiti.
Corpi ancora irrigiditi dal rigore e contorti nelle dita di una mano che con ogni probabilità non smetterà di stringere, facendolo sgorgare sempre il sangue denso, di quello che prima d'ora l'abbiamo visto solo in qualche film, o in qualche brutto incidente da piccoli.
Sangue vero, che sa di ferro.

Ho iniziato a mischiare i sintomi e le conseguenze.
Curo ogni doppia sbagliata, ogni punteggiatura errata, ogni maiuscola fuori posto, ma continuo a confondere le ombre e, ogni volta che me accorgo, ne perdo un pezzetto.

Sono vistosi i danni.
Sono vistosi e fastidiosi.

Nel tedio di una preghiera ben recitata decido di sparire nella macchia, di darmi una mossa e di brindare a tutti quei giorni in cui ti si taglia la faccia tanto l'aria è fredda e mirata in mezzo agli occhi.
A tutti quei giorni in cui le ferite non riescono nemmeno ad asciugarsi perché l'aria al contrario è troppo poca.
A tutti quei giorni di martirio lavorativo.
A tutti quei giorni in cui pensavo potesse cambiare, la vita.
A tutti quei momenti non capiti ai quali ho pensato troppo tardi.
A tutti quei giorni pieni di post-it.
A tutti quei giorni intrisi di lapidi, di frenate con l'abs, di fiori, di dita medie fuori dai finestrini, di battute esilaranti.
A tutte quelle mattine di ghiaccio.
A tutti quei giorni di desiderio assoluto di diventare qualcosa.
A tutti quei giorni di caos.
A tutte quelle persone così strane da non crederci.
A tutte quelle voci sprecate, mai sentite, ignorate: brindo!
Ed espiro fino al vacuo. E poi di nuovo inspiro fino a scoppiare. E poi di nuovo, e ancora, e ancora. Finché decido di rassegnarmi a riacquistare solo un colorito normale e un respiro regolare.
Ricordo quello che avrei voluto essere. Pensavo ci sarei riuscito, ad ogni costo. Con ogni mezzo.
Confondevo i sintomi. I toni e pure i semitoni.
Nel tedio di una ricerca che è un incognita, c'ho provato, riposando le mie ossa ogni notte.


Le stanze sono gremite, e c'è ancora tutto quel fumo a farmi lacrimare.
Le facce sono molteplici, e solo a spintoni possiamo riuscire a non cadere.
Dopotutto saremmo capaci a rialzarci. Non avremmo grossi problemi.
In fondo il nostro lavoro è cucire toppe sulle ginocchia.
Scelgo di uscire non facendoci troppo caso. Senza donne cannone da immortalare e senza pagine da voltare di nuovo.
Così, secco.
Al sapore di ferro.

Aspetto che si sciolgano i ghiacciai.
Vedo le luci spegnersi, guardo la stanza gremita svuotarsi. I vetri sono ancora appannati.

Da buon mendicante scelgo di tornare dentro. Chissà se qualche sbadato ha perso qualcosa nella ressa.
Noto che qualcuno con un intento preciso, non certo per sbaglio, ha lasciato delle monetine; forse in pegno per l'inferno.

Lascio tutto com'è e me ne vado sorridendo, perché la fuori, tempo beffardo, sta già nevicando rosso.

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